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RIASSUNTO
9. April 2003

Per un attimo immenso
ho dimenticato il mio nome
di Roberto Cotroneo

Anche quella era una storia di specchi e di legami, e di riflessi.

Gli scacchi sono una specie di romanzo dove una persona può far credere di essere qualcosa d'altro.

Roberto Cotroneo

 

"Per un attimo immenso ho dimenticato il mio nome. Scendevo i gradini a uno a uno, i gradini delle scale…, sapendo bene che non avevo parole da dire a nessuno, e che non avevo nessun posto dove andare, nessun luogo da cui ripartire”.

Questo attimo singolare, questa discesa melanconica, è riempito dal narratore Luis – anche se lui fa finta di non avere niente da dire – con un intero libro, con una vita frammentariamente raccontata. Inizia e finisce a Tempestad, "un paese che nessuna carta geografica riporta”, il paese dell’infanzia, dove si pongono le domande e dove si ricevono le risposte. A Tempestad "tutta la città giocava a scacchi. E lo faceva per le strade. … Ma a Tempestad nessuno vinceva e nessuno perdeva”.

Luis deve lasciare presto questo luogo, entra nella vita ordinaria, diventa violinista con un talento insospettato. Sarà scoperto dalla misteriosa Chiara e farà parte di un quartetto che vuole mettere in scena la "Grande Fuga” di Beethoven. Si uniscono quattro strani caratteri, e ognuno si specchia nell’altro, però ognuno rimane isolato nel suo mondo privato. Riescono solo una volta a suonare il brano; dopo il gruppo si divide. Luis fugge – la sua grande fuga – sulla nave da crociera "Scirocco". Lì trova Byrne, però anche Byrne è un reietto, un emarginato, uno che non può superare la più grande sconfitta della sua vita, la sconfitta contro Bobby Fischer.

Byrne – Fischer, New York 1956. con 17…Ae6 Fischer ha sacrificato la donna (18. Axb6) a favore di un attacco

"Bobby Fischer aveva soltanto tredici anni quando vinse contro di lui. In una partita fuori luogo, come Byrne ripeteva sempre. Fuori luogo perché Bobby giocò in un modo imprevedibile: nessuna regola avrebbe giustificato il sacrificio della Regina. Donald disse di aver smesso di giocare da quel giorno” (28)

Anni dopo Byrne si ritira sulla nave, senza lasciarla mai, per giocare e rigiocare questa sua partita fatale oppure per giocare e perdere, al calcolatore, contro un avversario anonimo le cui misteriose lettere iniziali sono proprio "BF”. Si pone senza interruzione la stessa domanda:

"Si può vincere sacrificando un pezzo come la Regina?"

Il maestro invecchiato invece riesce a formulare strani pensieri e Luis lo trova di fronte ad uno specchio, che gioca a scacchi contro se stesso.

"Lo specchio capovolge il gioco. Come questa nave capovolge il mondo” (83).

 

"Bene, se tu osservi una partita di scacchi allo specchio, capisci il profondo significato di questo gioco. Tutto è invertito. Ed è come vedere il mondo attraverso una logica capovolta. No, lo specchio è un modo di dialogare con i pezzi. Anche loro lo sanno. Anche loro si specchiano” (89).

 

"’Byrne’, gli dissi stupito, ‘ma lei gioca contro se stesso.’
Questa volta si voltò: ‘No, gioco contro un ombra. Ma tu, Luis non sei un buon osservatore’.
‘Perché?’, chiesi.
‘Guarda bene, ti sembra la stessa partita? Il Cavallo in c3 là sullo specchio diventa un Cavallo in f6, capisci cosa vuol dire?’
‘È capovolto.’
‘Si’, aggiunse Byrne. ‘Solo che gli scacchi sono un gioco fatto di simmetrie. Le Torri, i Cavalli e gli Alfieri hanno delle posizioni simmetriche. Solo la Regina e il Re spezzano la simmetria. Ora quel Cavallo che tu vedi sullo specchio non è lo stesso Cavallo capovolto dal riflesso, è l’altro Cavallo. Se dovessi dirtelo con un linguaggio degli scacchi: quello è il Cavallo in f, non in c, capisci? Neppure la mano è la stessa. Quella che si muove sullo specchio è la sinistra, mentre i pezzi io li sposto con la destra.’
Cosa significava? Significava, prima di tutto, che Byrne giocava un se stesso capovolto:’E che gli specchi, con gli scacchi, non si comportano come con tutti gli altri oggetti. Gli danno un valore. Non è lo stesso pezzo, Luis, è un altro pezzo. … I pezzi prendono un altro significato, e cambiano di identità. Mentre in tutti gli altri casi gli specchi riescono a cambiare soltanto posizione agli oggetti’” (90).

Byrne - Fischer: Il nero matta in sette mosse

Il creatore di questi pensieri è un certo Milo Temesvar nel suo libro "Sull’uso degli specchi nel gioco degli scacchi".

Dopo Luis viene a sapere che Byrne una volta era andato alla ricerca di Temesvar e lo avevo perfino trovato. Indovinate dove? A Tempestad naturalmente. E chi era? Il padre di Luis naturalmente! E chi era l’avversario senza nome al computer? Bobby Fischer oppure Temesvar? Finalmente Byrne riesce a pattare una partita, una sola:

"Disse solo: ‚Un pareggio, l’equilibrio di un pareggio … Una partita perfetta" (233).

Poi abbandona la nave ed anche gli scacchi.

 

Per Luis invece il viaggio diventa un’emigrazione nel suo passato dove trova, fra gli altri, i ricordi di suo padre e sua madre e la sua interiorità. La ritirata diventa fuga, la grande fuga nella zona impenetrabile della sua anima e del suo ego. Il misterioso passato si chiama Tempestad, dove tutti giocavano a scacchi.

"Solo che a Tempestad le partite non si vincevano e non si perdevano: si pattavano. Perché la partita perfetta, quella che non ha errori da nessuna parte si patta” (159).

"…che la rovina di Tempestad sarebbe cominciata quandi i giocatori avrebbero smesso di pattare le partite a scacchi, quando sarebbe iniziato un cammino che li avrebbe portati a vincere uno con l’altro, a commettere degli errori” (168f.).

"E invece era una forma di meditazione. I giocatori sapevano che l’arte più grande era quella di giocare in armonia uno con l’altro, senza strappi, mosse ambiziose che portassero a infiacchire l’avversario. … L’ordine della scacchiera li salvava ogni giorno da quel paesaggio che non aveva nulla di fermo, di stabile, ma soprattutto che non aveva regole su cui poggiarsi. Fu proprio una liberazione: le regole degli scacchi erano una costituzione vera e propria, in un luogo che aveva poche leggi, mal lette, mal scritte…” (171f.).

Anche a Tempestad il progresso non si ferma. Luis, infatti, troverà solo rovine: qualcuno aveva cominciato a giocare per vincere anche lì.

Alla fine lui capisce che perfino le cabine della nave sono disposte come una scacchiera; manca solo la casella d1, quella della regina bianca. Per trovarla deve andare fino in fondo a sè stesso, scendere nelle stive della nave per poter risalire al suo centro, dove trova Maria, la regina, e dove lui sente la frase decisiva:

"Come questa vita non è altro che una partita di scacchi che nessuno può vincere” (298).

I lettori devono superare ben trecento pagine, per arrivare alla saggezza banale, che la vita è una partita a scacchi, che nessuno può vincere: trecento pagine senza avvenimenti però piene di allusioni, piene di cenni enigmatici ed oscuri, piene di pensieri rimuginati.

Cotroneo, rappresentante della nuova letterature italiana, ovviamente, ha provato a scrivere un libro profondo. Come parecchi della sua generazione non riesce a liberarsi dal suo sapere. Hanno letto troppo, questi autori, troppo Nietzsche e Schopenhauer e Kierkegaard, troppo "pessimismo”, troppo Sartre e Camus e Heidegger, troppo "esistenzialismo”, soprattutto troppo Freud e Jung e Lacan (e Reuben Fine), troppa psicoanalisi ed anche troppo Kafka e Beckett e Joyce. E non sono riusciti a superarlo e ad andare oltre. Per raggiungere la profondità psicologica di un Hamsun, Svevo o Kafka non è richiesta tanta conoscenza, ma tanta saggezza. La saggezza però non si può imparare.

Tutto in questo libro è troppo: c’è troppo di senso, di significato, di simboli e problemi, troppa "gente perduta”, troppi che "fissano il vuoto”, troppe fughe e "sguardi che non riescono a tenere nascosto il dolore”, troppi "sogni antichi”, troppi gradini che scendono, troppi specchi e riflessi…

 

Profondità in questo libro significa pesantezza e lunghezza, in altre parole noia. L’intellettualismo affettato riesce qui a seppellire tante idee e pensieri validi, anche riguardo agli scacchi e alla musica. Fa parte di quei libri "androgini” che non si sa mai se sono riusciti o falliti, perché per valutarli non può esistere un criterio obiettivo. Questo viene sostituito dal gradimento personale. Un lettore potrebbe essere commosso fino al pianto, perché il libro ha toccato i suoi più intimissimi sentimenti, un altro invece potrebbe aspettare – irritato e sbadigliando, ma certamente invano – che alla fine succeda qualcosa.

 

Personalmente ho capito il significato dell’aforisma di Nietzsche:

"I poeti non hanno il pudore delle proprie esperienze: le sfruttano.”
(Al di là del bene e del male. IV, 161)

Cotroneo, Roberto: Per un attimo immenso ho dimenticato il mio nome. Milano 2002. Mondatori. 322 pagine. € 16.40 http://www.robertocotroneo.com/

 

 

--- Jörg Seidel, 09.04.2003 --


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